LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso il G.i.p. del Tribunale di Rimini nei confronti di Girardi Pasquale nato il 1° maggio 1969, avverso sentenza del 1° marzo 2006 dal G.i.p. del Tribunale di Rimini. Sentita la relazione fatta dal consigliere Macchia Alberto lette le conclusioni del p.g. dott. V. D'Ambrosio che ha chiesto l'annullamento della sentenza con rinvio. O s s e r v a Con sentenza del 1° marzo 2006, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini ha pronunciato sentenza con la quale ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Girardi Pasquale in ordine ai reati di cui agli artt. 612 e 594 cod. pen. al medesimo ascritti, e commessi il 2 ottobre 2001, in quanto estinti per intervenuta prescrizione, essendo decorsi i termini previsti dall'art. 157 cod. pen., come modificati ad opera dell'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, senza che fossero intervenuti atti interruttivi, a norma dell'art. 160 cod. pen. Avverso la statuizione adottata dal giudice del merito, evidentemente fondata sulla disposizione dettata dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della richiamata legge n. 251 del 205 - in base al quale e' stabilito che «quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria» il termine di prescrizione di tre anni - ha proposto ricorso per cassazione il pubblico ministero, deducendo violazione di legge. A parere del ricorrente, infatti, non puo' ritenersi accoglibile la tesi secondo la quale tale disposizione sarebbe riferibile ai reati di competenza del giudice di pace, per i quali sono previste le peculiari sanzioni dell'obbligo di permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilita', giacche' si perverrebbe all'assurdo di ritenere applicabile il termine di prescrizione piu' breve alle ipotesi piu' gravi, mentre per i reati meno gravi, puniti con la sola pena della multa o dell'ammenda, rimarrebbe applicabile il maggior termine di prescrizione previsto dal primo comma dell'art. 157 cod. pen. Donde la conclusione secondo la quale, non potendosi «ritenere applicabile ai reati di competenza del giudice di pace il piu' breve termine triennale di prescrizione», occorrerebbe nella specie fare riferimento al primo comma dell'art. 157 cod. pen., con la conseguenza che - considerata l'epoca del commesso reato - deve applicarsi il termine quinquennale di prescrizione previsto dall'art. 157 nel testo previgente, essendo esso piu' favorevole, a norma dell'art. 2 cod. pen., del nuovo termine di sei anni stabilito per i delitti dalla novella. Il testo della norma che viene qui in discorso e' peraltro univoco, giacche' altro significato non sembra potersi annettere al riferimento ai reati per i quali la «legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria», se non quello di un richiamo ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, per i quali e' stabilita l'applicabilita' delle cosiddette sanzioni paradetentive della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilita', a norma dell'art. 52 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. E' quindi del tutto evidente che, ai fini della odierna decisione, occorre fare applicazione della disposizione dettata proprio dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., nel testo risultante dalla sostituzione operata dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, dovendosi al tempo stesso escludere la possibilita' di ricorrere ad interpretazioni adeguatrici, tali da dissolvere i dubbi di costituzionalita' che, qui di seguito, si illustreranno. Occorre infatti a tal proposito qui rilevare come la giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte abbia in piu' occasioni chiarito che la cosiddetta interpretazione adeguatrice, pur corrispondendo ad un preciso ed ineludibile dovere del giudice, puo' in concreto trovare applicazione soltanto nelle ipotesi in cui una determinata disposizione presenti un carattere «polisenso», cosicche' da essa sia enuciabile, senza manipolarne il contenuto - ed in ossequio, anche, al principio di conservazione dei valori giuridici - una norma compatibile con la Costituzione «attraverso l'impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale: di talche', nell'impossibilita' di conformare il significato della norma in termini non incostituzionali, il giudice non puo' disapplicarla, ma deve rimettere la questione di legittimita' costituzionale al vaglio della Corte costituzionale (Cass., sez. un., 31 marzo 2004, Pezzella; Cass., sez. un., 30 maggio 2006, Pellegrino). Ebbene, a proposito delle sanzioni applicabili dal giudice di pace - o dal giudice comunque chiamato a giudicare dei reati di competenza del giudice di pace (art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000) - l'art. 52 del citato d.lgs. n. 274 del 2000 stabilisce una sorta di summa divisio tra i reati per i quali e' prevista la sola pena della multa o dell'ammenda, per i quali continuano ad applicarsi le pene pecuniarie vigenti, e tutti gli altri reati, per i quali il comma 2 dello stesso articolo stabilisce che, in luogo delle pene detentive, si applichi - con meccanismi differenziati a seconda delle varie ipotesi ivi prese in considerazione - o la pena pecuniaria della specie rispondente, o la pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilita' (ove per il reato sia prevista la pena detentiva alternativa a quella pecuniaria, le sanzioni «paradetentive» sono applicabili soltanto se la pena detentiva e' superiore nel massimo a sei mesi). In sostanza: per le ipotesi meno gravi, per le quali la sanzione applicabile e' solo la pena pecuniaria, il termine di prescrizione e', a norma del novellato art. 157 cod. pen., quello previsto dal primo comma (sei anni se si tratta di delitto e quattro anni se si tratta di contravvenzione); nei casi di maggior gravita', quali quelli per i quali sono applicabili le pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilita', il temine, inspiegabilmente, si riduce a tre anni. Va poi aggiunto che le indicate sanzioni, che «per ogni effetto giuridico si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria» (art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, evocativo di un meccanismo di «sostituzione» che trasporta quelle pene dallo schema dell'editto alla sede squisitamente applicativa), vengono configurate come in ogni caso facoltative e alternative rispetto alle sanzioni pecuniarie: cosicche', commisurazione del termine di prescrizione viene fatto dipendere, non da una pena strettamente prevista (e di certa applicazione), ma dalla teorica irrogabilita' di una sanzione, la quale in concreto puo' anche non essere applicata. D'altra parte, non e' senza significato la circostanza che la giurisprudenza di questa Corte si fosse consolidata nell'affermare - con riferimento al «vecchio» testo dell'art. 157 cod. pen. - che, ai fini della determinazione del tempo necessario per la prescrizione delle contravvenzioni attribuite alla cognizione del giudice di pace, punite con la pena pecuniaria o, in alternativa, con le sanzioni cosiddette paradetentive, dovesse farsi riferimento all'art. 157, primo comma, n. 5), cod. pen., che per le contravvenzioni punite con la pena dell'arresto determina(va) il termine prescrizionale in tre anni; e cio', appunto, proprio in forza della disposizione contenuta nel richiamato art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, in base al quale - come si e' detto - per ogni effetto giuridico la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e di lavoro di pubblica utilita' si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria (cfr., ex plurimis, Cass., sez. IV, 16 gennaio 2004, Carlini; Cass., sez. IV, 18 novembre 2003, Cecconi; Cass., sez. IV, 3 dicembre 2002, Guzman Avila). La previsione che qui si censura appare dunque essere priva di razionalita' intrinseca e tale da vulnerare, ad un tempo, il principio di ragionevolezza ed il canone della uguaglianza, presidiati dall'art. 3 della Costituzione. Come infatti ha avuto modo di puntualizzare la giurisprudenza costituzionale, ogni tessuto normativo deve «presentare una "motivazione" obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita' tipizzante del tutto avulsa dai "motivi", storicamente contingenti, che possono aver indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira' la verifica di una carenza di "causa" o "ragione" della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potra' dirsi realizzato un vizio di legittimita' costituzionale della norma, proprio perche' fondato sulla "irragionevole" e percio' stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe» (Corte cost., sentenza n. 89 del 1996). La disposizione oggetto di impugnativa - rilevante, per quel che si e' detto, nel presente giudizio - appare dunque essere, ad avviso di questa Corte, priva di una «causa» giustificatrice, proprio nel senso lumeggiato dalla richiamata pronuncia costituzionale, giacche' l'evidente propria normativa che con essa si introduce nel sistema non puo' giustificarsi alla luce di nessun valore, esigenza o ratio essendi intrinseca alla intera disciplina che il legislatore ha inteso novellare. Da tutto cio' la conseguente declaratoria di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui appunto prevede che quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria si applica, per la determinazione del tempo necessario a prescrivere il reato, il termine di tre anni, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.